Il suo cervello ha solo 960 mila neuroni, eppure sa pensare Elabora concetti astratti e interpreta anche le immagini
Pensare significa formare concetti, cioè categorizzare la varietà delle esperienze. Borges nel suo famoso apologo su Funes, «il memorioso», immagina la conseguenza più drammatica del dono di una memoria prodigiosa, l’incapacità di formare categorie astratte, perché sommersi dai ricordi incancellabili dei particolari individuali. Dice Borges, parlando di Funes: «Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta».
Formare concetti vuol dire costruire delle classi di equivalenza, trattando stimoli diversi come se fossero eguali ai fini dell’esecuzione di certe risposte. Il barboncino delle tre e quattordici (visto di profilo) e l’alano delle tre e un quarto (visto di fronte) sono esemplari della medesima categoria, per i quali provvederò a procurarmi un guinzaglio e a trovare il tempo per una passeggiata giornaliera.
La capacità di formare concetti è stata considerata un pinnacolo dell’attività mentale, qualcosa che è possibile osservare solo nei sistemi nervosi complessi, dotati di un gran numero di neuroni. Si è scoperto, però, che insetti come le api, i cui cervelli non arrivano a un milione di neuroni, possono formare concetti astratti, come ad esempio il concetto di «eguale e diverso» oppure quello di «sopra e sotto», e possono categorizzare percettivamente lo «stile» di un’immagine come «impressionista» o «cubista» (le implicazioni malevoli su quanti neuroni servano per fare il mestiere di critico d’arte qui sono inopportune). Se pensiamo alla funzione biologica della categorizzazione, non dovremmo sorprenderci più di tanto. Proprio perché hanno un cervello fatto di pochi neuroni possiamo aspettarci che le api siano brave a categorizzare; al contrario, disponendo di molti neuroni, ci si può permettere il lusso di tenere in memoria i ricordi di molti stimoli individuali.
A differenza di Funes, un’ape, che si guardasse ripetutamente allo specchio, non avrebbe difficoltà a categorizzare l’immagine come la medesima. Nello stesso tempo sarebbe in grado di distinguere il vostro volto da quello di un’altra persona. La capacità di riconoscere i volti è qualcosa che ci aspettiamo di osservare negli organismi con una vita sociale basata sul riconoscimento visivo dei singoli individui, come accade tra gli esseri umani e altri primati. Vi sono, in effetti, certe specie di vespe che posseggono nella regione del capo delle marcature, sorta di tratti facciali, che consentono il riconoscimento individuale su base visiva, ma non è così nelle api (che tra l’altro non se ne farebbero nulla nel buio dell’alveare). Sembra plausibile, perciò, che le api impieghino per riconoscere i volti umani gli stessi meccanismi con i quali discriminano altri tipi di «pattern» complessi, come quelli dei fiori.
Come riescono a farlo con così pochi neuroni? La risposta, sorprendente, è che in realtà i meccanismi nervosi per discriminare i volti hanno bisogno di poche centinaia di neuroni. Servono, invece, tanti neuroni se si vogliono memorizzare i volti di molti individui distinti, come fanno per l’appunto le scimmie o gli esseri umani. In un certo senso, le unità logiche di base per i processi di pensiero sembrano essere le stesse in tutti gli animali, mentre appare diversa la dotazione di memoria.
Tutto questo spiega perché molti neuroscienziati stiano dirigendo la loro attenzione sullo studio di organismi semplici, dotati di pochi neuroni (si può leggere a questo riguardo il bel libro di Randolf Menzel e Matthias Eckoldt, appena pubblicato per i tipi di Cortina, «L’intelligenza delle api») e perché il sistema nervoso di questi organismi sia una fonte di ispirazione per gli studiosi di robotica interessati ai processi di controllo (ad esempio, come far volare un velivolo in assenza di pilota). La scommessa riduzionistica, che si è dimostrata vincente nella storia della scienza, è di spiegare il pensiero riconducendolo ai suoi mattoncini costitutivi più elementari. Sì, il cervello di un’ape o di un moscerino è fatto per il pensiero.
* Giorgio Vallortigara è professore di Neuroscienze e Direttore del CIMeC, il «Center for Mind/Brain Sciences» dell’Università di Trento
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