Riflessioni che mi appunto nel blog perchè ben espresse e molto interessanti. Da approfondire.


Dietro il trend #Quittok: cosa nasconde il privilegio (di pochi?) di dimettersi e sbandierarlo di Eugenia Nicolosi

Quittok

Mentre il tema delle “Great Resignations” continua, i TikToker hanno creato contenuti sotto l’hashtag #QuitTok: persone che si preparano a consegnare – e consegnano – le dimissioni in diretta o che raccontano come lo hanno fatto con dei video selfie dei minuti successivi.
Molti di questi TikTok hanno anche i tag #quitmyjob e #iquitmyjob, che hanno milioni e milioni di visualizzazioni.

Si parla quindi di “fenomeno”, anche perché le dimissioni sbandierate sono uscite dal social di video per atterrare pressochè ovunque: su Twitter in particolare, numerosi tweet sono diventati virali e pare piacciano molto le storie di persone che hanno lasciato il lavoro per seguire una nuova carriera, migliorare la propria salute mentale, viaggiare o avviare un’attività in proprio.

È un privilegio o totale superficialità?

“Mi sono licenziato stamattina, sentitevi liberi di usare la mia lettera di dimissioni”, è il titolo di un thread sul sul forum di Reddit dedicato al tema delle dimissioni, R/antiwork (dove gli abbonamenti sono aumentati a dismisura) aperto meno di 24 ore fa. E oggi è il 31 marzo 2023.

Segue il testo integrale: “È con grande rammarico che devo presentare le mie dimissioni da (nome azienda) con effetto immediato. Faccio parte del team di (nome azienda) da (periodo di tempo) e non posso più continuare a lavorare per un’azienda che ammette il bullismo chiudendo un occhio sul problema e ha un amministratore delegato corrotto.
Sono stato oggetto di bullismo sul lavoro e mi sento non supportato e non al sicuro nel mio ambiente di lavoro, il che ha avuto un impatto significativo sulla mia salute mentale.
Inoltre, le recenti notizie e le accuse sull’amministratore delegato dell’azienda hanno chiarito che i valori e l’etica dell’azienda non sono allineati con le mie convinzioni personali.
Non posso più lavorare per un’azienda che antepone i profitti alle persone e si impegna in pratiche commerciali non etiche.
Sono deluso che si sia arrivati a questo, ma sento che dimettermi è la cosa migliore per me. Vorrei ringraziare te (nome del destinatario) e il resto del team per l’opportunità di lavorare in (nome azienda) e per il vostro supporto durante il mio tempo qui.
Cordiali saluti, (nome)”.

Si sollevano un pugno di questioni.

La prima: è molto bello che le persone decidano di non lavorare per un’azienda che non rispecchia i i valori in cui personalmente credono.
Le persone negli ultimi anni stanno tornando a parlare di etica ed è una buona cosa, metterla in cima alle priorità anche a costo di perdere il lavoro è senz’altro una scelta coraggiosa.
La seconda: potrebbe non essere legale – o banalmente, non corretto – accusare persone e aziende di razzismo, corruzione, mancanza di etica e bullismo con un post in uno spazio pubblico come è la piattaforma Reddit senza dare loro l’opportunità di replicare.

La terza: raccontare pubblicamente di essersi dimettesse, o dimessi, da un posto di lavoro è diventata una moda? E tutte queste persone davvero erano infelici a lavoro?
La quarta: se c’è davvero tutta questa infelicità a lavoro e se è davvero così diffusa non si deve parlare più di trend social o di fenomeno social tirando in ballo Millennial o Gen z: occorre parlare di come affrontare il tema socialmente (e globalmente).

La quinta: nessuna azienda è perfetta, nessun team è perfetto, nessun mestiere è perfetto.
Il sogno di mandare tutto all’aria grazie a un gratta&vinci fortunato è comune, ma chi può farlo davvero?
Le persone che fanno i video sui social raccontando di come si sono licenziate hanno le spalle coperte da famiglie super benestanti? Proprietà immobiliari messe a reddito? La stupidaggine di non pensare al proprio futuro?
Insomma, dimettersi e lasciare il lavoro per sbandierarlo sui social è un privilegio per ricchi, una moda di cui poi si pentiranno, un fenomeno sociale da affrontare con grande urgenza o un atto di estremo coraggio?

Cambiamenti radicali per Gen Z e Millennial

La tendenza ufficialmente sarebbe appunto #QuitTok, ma gli altri topic legati al posto di lavoro sono anche Bare Minimum Monday (il lunedì del salario minimo) e Great Resignations (grandi dimissioni).
Gli e le (ormai ex) dipendenti fanno video in diretta anche per catturare il momento esatto in cui si dimettono dal posto di lavoro, compreso il momento in cui hanno detto ai loro capi che andavano via e la reazione di questi. Non senza godimento, pare.

Le storie dietro le dimissioni, prontamente condivise, sembrano tutte legittime: per una ragazza sono state determinanti le vesciche dovute al costante uso dei tacchi imposti dall’azienda, per un ragazzo lo è stato scoprire che lo stipendio annuale di un collega parigrado era più alto di oltre 10mila euro rispetto al suo, per un’altra le continue battutine (molestie) di superiori e colleghi.
Erano stufi, frustrati, non ne valeva la pena. Ed erano pronti a dimettersi facendolo sapere ai loro follower.

La maggior parte degli utenti TikTok sono nativi digitali, per loro tutto è condivisibile. Hanno normalizzato la condivisione di ogni tipo di momento, che sia un fallimento, un traguardo, una gioia o un malessere.
Ma anche negli altri social si parla di dimissioni e si trovano tonnellate di post dedicati al come, al quando e al perché gli utenti si stanno dimettendo in massa.
E infatti c’è anche un’altra cosa: la tendenza #quittok è tenuta da un cambiamento radicale, sembra, nell’approccio alla vita e al lavoro che non è proprio di una generazione.

Sebbene sembrino Millennial e Gen Z le più coinvolte – e direi: gli altri sono prossimi alla pensione o ancora studiano – forse perché hanno visto i loro genitori sgobbare tutta la vita e attraversare le crisi economiche, politiche e sociali come delle brave api operaie: a testa bassa, continuando a produrre per tenere in movimento tutto l’alveare ma non esistevano le partite iva – non come oggi – né la precarietà di oggi.

E, merito delle sicurezze economiche e per colpa della cultura non si parlava però di salute mentale, né di diritti, discriminazioni, molestie.
Il lavoro visto dalla prospettiva “dei genitori” di Millennial e Gen z è, al netto di qualche eccezione, un dovere più che un diritto.
Al contrario le generazioni di cui sopra sono invece attente al tema della salute mentale, dei diritti e dell’equilibrio vita lavoro.

Non si fanno “stressare” e non si entusiasmano per una vita da ape operaia.
Certo, oggi però chi si dimette lo può fare perché i suoi genitori sono stati o sono ancora api operaie che eventualmente sacrificherebbero la salute mentale per i loro figli (se l’avessero mai problematizzata come facciamo oggi). E c’è anche questo tema: i figli.
Chi si dimette figli non ne ha. Non ha nemmeno una casa di proprietà con un mutuo da pagare. E non perché non abbia voluto.
Gen Z e Millennial sono rimasti schiacciati in una condizione di forzata esclusione e di mancata autodeterminazione per via di precariato e crisi: è allora anche giusto osservarne il lato positivo, ovvero che possono mollare quando vogliono l’ambiente di lavoro che ritengono tossico o la professione che ritengono squalificante, andare a vivere in una città in cui il costo della vita è più basso perché tanto non hanno famiglia a carico né casa di proprietà e cercarsi con calma un’altro mestiere.
Ci hanno insegnato a non essere “choosy”, giusto? E che il posto fisso è un orrore, giusto?

 

La tendenza #quittok ha tutto il potenziale per trasformare in modo definitivo la visione che le aziende hanno dei dipendenti: oggi sembra che vedano le persone come tutte sostituibili in un approccio che suona tipo tu non lo vuoi fare? Ce ne sono altri mille disposti.

Ma se questi mille diventassero cento sarebbe diverso, ancora diverso se questi cento diventassero cinque.
E inoltre questi cinque hanno imparato a pretendere una giusta retribuzione, turni, ferie, assicurazione e contratto regolare perché il lavoro è un diritto, prima che un dovere, ma anche la salute mentale e la legalità lo sono.
Sì, c’è un “ma”. Le implicazioni a lungo termine dell’abbandono in diretta del posto di lavoro vanno problematizzate.
C’è stato un tempo in cui postare un video in cui si parla della decisione di lasciare il lavoro poteva sembrare poco saggio, o almeno di cattivo gusto.
C’era l’abitudine a stringere i denti, a essere grate – soprattutto le donne – per un posto di lavoro qualsiasi, per quanto squalificante, per quanto sacrificante, per quanto annientante.
Alcuni annunci di lavoro – e da qualche anno vengono condivisi – riportavano richieste come “occorre abnegazione” e nessuno fiatava.
E ovviamente l’insegnamento era di non denigrare gli ex datori di lavoro online ma nemmeno offline né di dire cosa, realmente, non andasse al lavoro precedente in fase di colloquio per un lavoro nuovo.

Ma dopo anni di pandemia, proteste nel nome della giustizia razziale, sociale, salariale e di genere e la consapevolezza collettiva che ha seguito questi eventi sembra che i lavoratori e le lavoratrici intendano davvero rifiutare consuetudini stantie e prive di equilibrio, dove lo squilibrio pende in favore dell’azienda.
La curva domanda-offerta del mercato del lavoro potrebbe finalmente tornare a ruotare attorno a un asse di giustizia, non necessariamente in favore dei dipendenti.
E i datori di lavoro potrebbero imparare a diventare meno esigenti: niente “favorini”, niente “no ho budget”, niente “pagamenti in visibilità” né “abnegazione”.