Domenica 24 Giugno 2001
Caro Montanelli,
Tralasci per un momento la storia e risponda – se lo ritiene – ad un cinquantottenne che s’interroga e la interroga.
Fino a qualche decennio fa i concetti di dignità, onestà (anche intellettuale), solidarietà sociale e rispetto per gli altri erano considerati difficili da seguire, ma pur sempre ideali di comportamento.
Adesso vengono visti come attributi di santità, ammirevoli ma impraticabili.
Lei può tirare dritto per la sua strada ed anche quando – speriamo fra tanti anni – non ci sarà più, resteranno la testimonianza di una personalità non utilitaristica e scritti che continueranno a parlare le sue parole.
Uno come me che lascia? Riesce a darmi un motivo valido per continuare a credere nei principi morali in questo tipo di società?
Antonio Balistreri
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Caro Balistreri,
Senza impegno di riuscirci, mi ci proverò. Ma per dirle anzitutto che la sua domanda («Uno come me che lascia?») non ha senso. Lei, d’accordo, non lascia nulla. Ma crede davvero che io lasci qualcosa? Se lo metta bene in testa, caro amico: in Italia nessuno lascia nulla a nessuno.
Il nostro patrimonio culturale è fatto di una dozzina di nomi, rimasti nella nostra memoria per deposito di secoli, ma soltanto come nomi. Di Dante si cita qualche terzina anche perché sono in rima. Ma quale concezione avesse Dante della vita e del mondo, riassuntiva di tutto il pensiero medievale, nessuno (forse anche per fortuna sua) sa nulla. Nei nostri itinerari culturali c’è una Piazza o un Corso Dante.
Io forse sarò ricordato, quando avrò preso congedo da questo mondo, da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli. So di avere scritto sull’acqua. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impegnandomi tutto in quello che scrivo. E se lei trova o cerca qualcosa da invidiarmi, è solo questo che può trovare: la gioia di scrivere sempre le cose in cui, nel momento in cui le scrivo, credo, anche se non ne rimarrà nulla, come sicuramente avverrà.
Ecco l’unica gioia che ci è consentita, come promesso dall’unica scuola di pensiero di cui valga la pena seguire i precetti: lo stoicismo. Esso non ci prospetta nulla, né in questa vita né nell’altra. Non ci dice che le nostre virtù saranno compensate (per esempio, dalla Gloria), e i nostri vizi puniti. Essa non ci offre altra consolazione che quella del Dovere compiuto, anche se da tutti gli altri misconosciuto e magari castigato come una colpa.
A questo punto non mi chieda se io mi considero uno stoico e se da stoico sempre mi comporti. A questa domanda cercò di sfuggire – evidentemente perché lo metteva in imbarazzo – lo stesso grande Maestro – che ne passa anche come modello – dello stoicismo, Seneca.
Ricordo di averne parlato in una «stanza» di poco tempo fa, in risposta a un lettore turbato dai miei dubbi in proposito. Per dirgli che forse mai nessuno, nemmeno Seneca, si era comportato da stoico in tutte le circostanze ed emergenze della sua vita; ma che ciò non toglie nulla alla grandiosità e all’altezza morale di quel «Credo» senza Dio, né Paradiso, né Inferno. Pare che Seneca, dopo avere spiegato al suo allievo Lucillo quanto sia naturale e facile affrontare la morte, abbia tentato di tergiversare di fronte alla propria.
Se ho divagato proponendole una problematica che non ha nulla a che fare col senso della sua domanda, gliene chiedo scusa. Ma lei ha fatto appello ai miei principi morali, e i miei principi morali sono proprio questi dello stoicismo, che alla sua domanda tolgono ogni senso.
Perché si preoccupa tanto di non lasciare, di sé, nessuna impronta? Nessuno di noi, in questo mondo dell’effimero, ne lascerà. Nessuno di noi contemporanei passerà, come si suol dire, «ai posteri» per il semplice motivo che i posteri sono una categoria scomparsa: basta vedere che razza di mondo ci apprestiamo a lasciargli.
Suvvia, caro Balistreri, coraggio. Ombre siamo, e come ombre siamo destinati a passare. Ma tali erano anche gl’intestatari di strade, piazze e monumenti il cui nome non mi dice nulla. Ombre. Come noi.
FONTE