Decano della psicologia analitica, racconta inL’inconscio a Torinogli inizi della disciplina, quando Pavese faceva tradurre Jung

Una volta, a unire Torino e Trieste, era un idrovolante, ammaraggio di fronte al Valentino, dove un cippo celebra la rotta d’antan. Correvano gli Anni Venti, nella capitale giuliana soffiava il vento della psicoanalisi. Qualche refolo arrivava sotto la Mole, magari a bordo del trabiccolo monomotore? E, soprattutto, vi trovava accoglienza, fosse solo un «punt e mes» di attenzione?

Nell’Inconscio a Torino (Aragno editore) si cala Augusto Romano, fra i fondatori dell’Arpa, l’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica, junghiano di lungo corso, come Jung – così osserverà un intervistatore del «maggiore» svizzero – un modo di comunicare «che va dal massimo del buon senso all’intuizione più acuta».

Jung o Freud. Chi signoreggia a Torino? «A ciascuno – riflette Augusto Romano – corrisponde una faccia di Torino. La prima: razionalista, illuminista, ordinata, geometrica, s’intona a Freud. Il medico viennese riteneva di essere uno scienziato positivista, faceva coincidere cura e verità. Nel bagaglio del paziente – la sua certezza – c’è una verità oggettiva: smascherarla equivale a guarire».

La seconda faccia? «La città bizzarra, barocca, duplice (Bruneri e Canella), irrisolta (il caso Rosa Vercesi)…È la Torino non solo di Jung, ma dei post-freudiani. Jung mette in crisi l’idea della verità, spalancato com’è al depositum fantastico del paziente, ai simboli e alle immagini che produce».

Freud e Jung, un amalgama, un’alchimia, che – Augusto Romano passa in rassegna i tipi indigeni – assume per esempio le sembianze di Edoardo Sanguineti, «junghiano di pancia (si riapra Laborintus), freudiano di testa. Offrirà un sicuro contributo per sottrarre Jung alla destra, fino alla deriva New Age. No, Jung non elude la drammaticità della vita, la sua analisi non ha paura del dolore».

La casa-studio dell’ottuagenario professore – a fare gli onori, appena varcata la soglia, uno spartito e un borsalino – si allarga nell’ottocentesco Borgo Nuovo, un’eco nitida del borghese mondo di ieri dove vagano, mai acquietati, gli spettri di Mario Soldati.

Il proto-analista freudiano, il proto-analista junghiano sotto la Mole? L’indirizzo clou, gemellato con Berggasse 19 (Freud) o con la dimora sulla cui porta era inciso l’oracolo delfico «Chiamato o non chiamato, Dio è presente!» (Jung)? La risposta giace in chissà quali archivi. Scovarla, pare di intendere, infine non è cruciale, non è urgente, ecco: non è attuale. «C’era una volta… – quasi solfeggia Augusto Romano -. L’analisi oggi è fuori moda. Non è sintonica con i tempi. È un lavoro artigianale, lento, faticoso, richiede un coinvolgimento affettivo, legittima la sofferenza…».

Come lucidare l’orgoglio? Rammentando che a Torino è nata l’editoria psicoanalitica. Prologo nel 1911, uno scritto di Freud (Le mie opinioni sul ruolo della sessualità nell’etiologia delle nevrosi) in un volume Utet. Quindi Einaudi e Boringhieri. Da Boringhieri l’omnia di Jung e Freud. In via Biancamano il loro «esordio»,Jung accolto da Cesare Pavese nella «Collana viola». Pavese che – testimonianza di Bianca Garufi – rifuggiva l’analisi temendo ne scalfisse la creatività.

«Se mi avesse fatto visita? Come avrei cercato di sfarinarne le remore? – si cimenta Augusto Romano – Gli avrei detto: la sua creatività è naturale, genetica, costituzionale; piuttosto, a opprimerla, caro Cesare, sono pensieri mortiferi. che ne canalizzano le energie psichiche, se solo se ne liberasse la sua pagina ulteriormente lieviterebbe».

Pavese & C. La letteratura subalpina al cospetto dell’analista-scrittore (Augusto Romano ha da poco dato alle stampe il romanzo La manutenzione dell’amore, torinesissimo il titolo, con il respiro di un’officina). «So che Mario Soldati, in particolare Le due città, calamitò l’attenzione di certi junghiani. Arpino, sì, è un visionario del reale, le visioni veicolano contenuti possenti. Ceronetti è troppo intellettualistico, a modo suo prova a far luce sul mistero, quindi riducendolo…».

L’inconscio a Torino. Si sarebbe potuto intitolare: «Il diavolo a Torino»…«Già, ma non escludendo, anzi, la sorpresa – si diverte a scompigliare Augusto Romano -. Il daimon di De Sade (che, a proposito, a Torino sostò nel 1772) probabilmente è un’oasi angelica. Se il suo Io è, qual è, una sentina di perversioni al massimo grado, perché il suo inconscio non dovrebbe essere il luogo del Bene?».

Passeggiando lungo queste vie, Soldati mediterà su Torino «capitale di una sognata mitteleuropa dell’occidente». Anima mitteleuropea è Augusto Romano, fra i suoi confrères il Kafka dei Diari («Anche se la redenzione non giunge, voglio però esserne degno in ogni momento»): «Kafka? Un mitografo, un esimio artefice di miti. Un infelice, scrutato con l’occhio dello psichiatra, ma, altrimenti “visto”, un veggente».

Di chi le note dello spartito chez Augusto Romano? Di Schubert? Perché no? Scommettiamo? Una «Fantasia», un’epifania junghiana…

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